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La falsa Donazione di Costantino

La Donazione di Costantino,in latino “Constitutum Constantini“, ossia “decisione”, “delibera”, “editto” di Costantino, è un documento FALSO conservato in copia nelle Decretali dello Pseudo-Isidoro (IX secolo) e, come interpolazione, in alcuni manoscritti del Decretum di Graziano (XII secolo). Nel XV secolo Lorenzo Valla dimostrò che il testo, in realtà, era un falso.

Il mito del serpente

Storia dell’archetipo del serpente, dalle civiltà neolitiche all’epoca ariana, tratto dagli scritti  di Joseph Campbell ”The Masks of God: Occidental Mithology".

Fernando Bortero, Adamo ed Eva

La Dea Madre Eva

Chiunque abbia un minimo di conoscenza dei miti della Dea Madre nei mondi primitivi, antichi ed orientali non può non vedere che la Bibbia ne contiene dei riscontri in ogni sua pagina, che assumono tuttavia una valenza opposta a quella delle fedi più antiche. Nella scena di Eva e dell’albero della conoscenza non si fa nessun accenno al fatto della, natura divina del serpente che appare ad Eva e le parla e che è una divinità adorata in Oriente per almeno settemila anni prima che venisse scritto il libro della Genesi. Al Louvre c’è un vaso scolpito, di steatite verde, con un’inscrizione del 2025 a.C. del Re Gudea di Lagash, dedicata a una tarda manifestazione sumera di questo consorte della dea, che ha come titolo Ningizzida, "Signore dell’Albero della Verità". Due vipere che si accoppiano intrecciate tra loro attorno a un bastone, come nel caduceo di Hermes, il dio greco della conoscenza mistica e della rinascita, appaiono su due porte che si schiudono, trattenute da due dragoni alati del tipo noto come leone – uccello. La meravigliosa capacità del serpente di perdere la pelle e rinnovare in tal modo la sua giovinezza gli è valso in tutto il mondo l’appellativo di signore del mistero della rinascita di cui la luna, con le sue fasi, rappresenta il segno celestiale. La luna è la signora e la misura del ritmo, dell’utero, creatore di vita, e dunque del tempo attraverso cui gli esseri viventi vanno e vengono: signora del mistero della nascita e parimenti della morte che sono in definitiva, due aspetti di un unico stato dell’essere. La luna è la signora delle maree e della rugiada chela notte scende a rinfrescare la vegetazione sui cui pascolano gli armenti. Ma anche il serpente è il signore delle acque. Dimorando nella terra, tra le radici degli alberi, frequentando sorgenti, paludi e corsi d’acqua, scorre silenzioso con moto sinuoso; oppure ascende come una liana tra i rami degli alberi, da cui pende come un frutto di morte. La suggestione fallica è immediata e richiama anche l’organo femminile; per cui si ha un’immagine duale che opera implicitamente sui sentimenti. Similmente duale è l’associazione col fuoco e con l’acqua, suggerita dalla fulmineità con cui colpisce, dai lampi della sua lingua biforcuta e dal fuoco letale del suo veleno. Quando lo si immagina poi mentre si morde la coda, come l’uroboro mitologico, sorge immediata l’immagine delle acque che in tutte le cosmologie arcaiche circondano, sostengono e permeano la terra, rappresentata come un’isola galleggiante.

 

Il serpente del paradiso

Un vaso verniciato Elamico dell’ultimo periodo Sassanidico (226 641 d.C.), mostra di nuovo l’antico guardiano dell’Albero del Mondo, attorcigliato sul tronco. In tal forma è evidente l’aspetto minaccioso. Tuttavia come il serpente del Paradiso terrestre Ningizzida è in genere amichevole verso chi, con dovuto rispetto, si accosta alle benedizioni del suo santuario. Un sigillo accadico del 2350 – 2150 A.C visua1izza la divinità in forma umana sul suo trono, col suo emblema caduceo alle spalle e un altare di fuoco davanti. Alla sua presenza viene condotto un devoto, il padrone del sigillo, seguito da una figura che porta un secchio, con un serpente che gli pende dal capo: un servitore del dio in trono, che corrisponde ai portatori (leoni – uccelli) della coppa di Gudea. La luna, fonte delle acque della vita, sta sospesa sopra la coppa sollevata dalla mano del dio, da cui l’iniziato sta per bere. Qui l’associazione tra signore serpente, coppa dell’immortalità e luna è del tutto ovvia; e cosi il motivo, comune a tutte le antiche mitologie, ossia la comparsa simultanea di un dio nel suo aspetto superiore e in quello interiore. Perché l’uomo di fatica presso la porta, che ammette o esclude gli aspiranti, non è altro che una manifestazione del Potere della divinità stessa. E’ il primo aspetto in cui si manifesta a chi si avvicini alla sua presenza; o, messa in altro modo, l’aspetto inquisitore del dio. Inoltre il dio ed anche la sua forma scrutinatrice possono apparire in una o più forme, contemporaneamente: in forma antropomorfa, teriomorfa, vegetale, celeste o elementare, come appunto in questo esempio: uomo, serpente, albero, luna e l’acqua della vita da individuare come aspetti di un unico principio polimorfico simbolizzato in tutte le forme e che al tempo stesso le trascende.

 

Il giardino della vita eterna

Altri tre sigilli portano questi simboli in relazione con la Bibbia. I1 primo è un elegante esempio siroittita, raffigurante l’eroe mesopotamico Gilgamesh in una manifestazione duale, proprio come guardiano di un santuario, alla maniera dei leoni – uccelli della coppa di Gudea. Ma ciò che troviamo  all’interno del santuario è una forma né umana né animale né vegetale: è una colonna fatta da cerchi serpentini, che reca alla sua sommità un simbolo del sole. Tale palo o pertica sta a simboleggiare il fulcro attorno a cui tutte le cose ruotano (axis mundi) e costituisce quindi un equivalente dell’Albero dell’Illuminazione dei buddisti, posto nel "Punto Immobile" al centro dell’Universo. Attorno al simbolo del sole, sopra alla colonna, si vedono quattro cerchietti, che come sappiamo simboleggiano i quattro fiumi che scorrono verso i quattro quadranti del mondo (si confronti il Libro della Genesi, 2:10-14). Da sinistra si avvicina il padrone del sigillo, condotto da un leone – uccello (o cherubino, come si chiamano tali apparizioni nella Bibbia) che nella mano sinistra porta un secchio e nella destra solleva un ramo. Segue una dea, nel ruolo di madre mistica della rinascita, e sotto c’è una rabescatura, un motivo labirintico che in questa iconografia corrisponde al caduceo. Di nuovo possiamo qui riconoscere i consueti simboli del mitico giardino della vita, dove il serpente, l’albero, l’asse del mondo, il sole eterno e le acque sempiterne irradiano la loro grazia in tutte le quattro direzioni e verso cui è guidato l’individuo mortale, dall’una o dall’altra delle manifestazioni divine, verso la presa di coscienza della sua immortalità. In un altro sigillo, dove il mitico giardino mostra tutta la sua opulenza, tutti i personaggi sono di sesso femminile. Le due figure che attendono all’albero sono individuabili come apparizione duale della divinità degli Inferi Gula – bau, i cui equivalenti nel mondo classico sono Demetra e Persefone. La luna è direttamente al di sopra del frutto che viene offerto, così come nel sigillo accadico stava sospesa sopra alla coppa. E chi riceve la beneficenza, che già ha nella mano destra un ramo del frutto, è una donna mortale. In tal modo, vediamo che nel primo sistema mitologico del Medio Oriente Nucleare – a differenza con quanto si verifica nel più tardo sistema rigidamente partiarcale della Bibbia – la divinità può essere rappresentata sotto sembianze femminili oltre che maschili, la forma qualificante essendo semplicemente la maschera di un principio che in ultima analisi non è qualificato, che pur essendo immanente in tutti i nomi e in tutte le forme, le trascende.

 

Senza peccato

Né in questi sigilli vi è alcun segno della collera o della minaccia divina. Non c’è assolutamente alcun senso di colpa in relazione col giardino. Il segreto della vita è lì come una manna, nel santuario del mondo, pronta ad essere colto. E viene offerto senza riserve di sorta a qualunque mortale che cerchi di attingervi, con la giusta propensione e disposizione a ricevere. Non è quindi accettabile l’interpretazione di quegli studiosi che hanno voluto vedere nel sigillo della prima epoca sumerica la rappresentazione di una versione sumerica della Caduta di Adamo ed Eva. Al contrario la scena è pervasa da un’atmosfera idilliaca, nella visione molto più antica dell’Età del bronzo, in cui il giardino è quello dell’innocenza e in cui i due desiderabili frutti della mitica palma da datteri sono per essere colti: il frutto dell’illuminazione e il frutto della vita immortale. La figura femminile alla sinistra, davanti al serpente, è quasi certamente la dea Gula Bau, (l’equivalente, come abbiamo già visto, di Demetra e Persefone) mentre la figura maschile sulla destra che non è un mortale ma un dio, come si capisce dalla corona con i corni della luna è certamente il suo amato figlio – consorte Dumuzi, "Figlio dell’Abisso"; Signore dell’Albero della Vita, l’immortale, sempre risorgente dio sumero che è l’archetipo dell’essere incarnato.

 

Demetra e Plutone

Un paragone calzante sarebbe quello con un rilievo greco – romano, in cui la dea dei misteri eleusini, Demetra, è raffigurata con il suo figlioletto divino Plutone, di cui il poeta Esiodo scrisse: "Felice, felice è il mortale che lo incontri nel suo procedere, perché le sue mani sono colme di benedizioni e il suo tesoro trabocca." Plutone su un certo livello personifica la ricchezza della terra ma in senso più ampio è l’equivalente del dio dei misteri, Dioniso. In Mitologia Primitiva e Mitologia Orientale ho discusso di alcune di queste divinità che sono al tempo stesso consorti e figli della Grande dea dell’universo. Tornando al suo seno nella morte (o, secondo un’altra immagine, nelle nozze) il dio rinasce come la luna fa la muta spogliandosi della sua ombra, o il serpente cambia la sua pelle. Coerentemente con questa visione, in questi riti di iniziazione cui questi simboli erano associati (per esempio, nei misteri di Eleusi) l’iniziato, tornando in contemplazione della dea madre dei misteri, si distacca meditativamente dal fato della sua spoglia mortale (simbolicamente, il figlio che muore) e si identifica col principio che sempre rinasce, l’Essere di tutti gli esseri (il padre serpente); per cui, in un mondo in cui si conosceva solo il dolore e la morte l’estasi viene riconosciuta come un continuo divenire.

 

L’albero dell’illuminazione del Buddha

Si confronti con la. leggenda del Buddha. Quando egli si mise nel Punto Immobile sotto l’Albero dell’Illuminazione, il Creatore dell’Illusione del Mondo, Kama – Mara, "Vita – Desiderio e Paura della Morte", si accostò per insidiarlo. Ma egli toccò la terra con le dita della mano destra e secondo la leggenda – la Potente Madre Terra tuonò dieci, cento, mille volte, dichiarando: "Ti sono testimone" e il demone sparì. Quella notte il Benedetto raggiunse l’Illuminazione e per sette volte sette giorni rimase assorto nel rapimento estatico, e durante questo periodo si alzò una spaventosa tempesta. E un potente re serpente, di nome Muchalinda:" … emergendo dalla sua tana nelle profondità della. terra avvolse sette volte il corpo del Benedetto con le sue spire, dispiegando il suo ampio cappuccio sulla sua testa, dicendo ‘Che né il caldo né il freddo, né le zanzare né le mosche né il vento né i raggi del sole né le creature che strisciano si avvicinino a colui che è Benedetto!’ E quando sette giorni furono trascorsi e Muchalinda seppe che il temporale era finito, e le nuvole disperse, ritirò le sue spire dal corpo del Benedetto e, assunta una forma umana con le mani giunte sulla fronte, riverì l’Illuminato." Nella tradizione orale e nella leggenda del Buddha l’idea della liberazione dalla morte ricevette una nuova interpretazione psicologica, che tuttavia non violava lo spirito delle precedenti rappresentazioni mitiche. I vecchi motivi erano portati ad un’enunciazione più avanzata e ricevevano maggiore immediatezza grazie all’associazione con un personaggio storico reale che ne aveva illustrato il significato nella sua vita; pure rimaneva un senso di armonia tra l’eroe ricercatore e i poteri del mondo vivente che, come lui, alla fin fine non erano che trasformazioni dell’unico mistero dell’essere. Così nella leggenda del Buddha, come negli antichi sigilli del Medio Oriente, prevale un’atmosfera di sostanziale armonia dove c’è l’albero cosmico, dove la dea e il serpente suo consorte danno ascolto al loro degno figlio che chiede la liberazione dai vincoli della nascita, della malattia, della vecchiaia e della morte.

 

Dio Padre e l’invenzione del peccato

Nel Paradiso Terrestre prevale invece una diversa atmosfera. Perché il Padre Signore (il cui nome scritto in ebraico è Yahweh) maledice il serpente quando viene a sapere che Adamo ha mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male; e dice ai suoi angeli: "Guarda, l’uomo è diventato simile ad uno di noi, che conosce il bene ed il male; ed ora affinché non protenda la sua mano ed afferri anche il frutto dell’albero della vita e lo mangi e viva per l’eternità, lo scaccerò dal Paradiso Terrestre, a lavorare la terra da cui era stato tratto". Così Yahweh scacciò l’uomo; e ad est del suo giardino pose il cherubino che è un cane uccello) e una spada fiammeggiante che girava in ogni direzione, a protezione del cammino verso l’albero della vita. Il primo punto che emerge da questo contrasto e che sarà dimostrato ancora in altre scene mitiche, è che nel contesto del patriarcato della civiltà ebraica dell’Età del ferro, del primo millennio a.C., la mitologia mutuata dalle prime civiltà neolitiche e dell’Età dal bronzo, presenti nei territori da essi occupati, e per un certo tempo governati, venne capovolta, dando ad ogni argomento una valenza opposta a quella originaria. E il secondo punto è un corollario che discende dal primo: c’è di conseguenza un’ambivalenza in molti dei simboli fondamentali della Bibbia, che nessuna retorica interpretazione tesa ad enfatizzare l’aspetto partiarcale è in grado di occultare. Essi rivolgono un messaggio pittorico al cuore che è esattamente l’opposto del messaggio rivolto alla mente; e questa discordanza nervosa permea non solo l’Ebraismo ma anche il Cristianesimo e  l’Islamismo, perché anche queste religioni condividono l’eredità del Vecchio Testamento.

I Geroglifici egiziani

Abbiamo estrapolato alcune parti da “I segreti dell’antico Egitto – intepretati da Jean-François Champollion” Archeologia Oscar Saggi Mondadori dando al contempo la possibilità di avere una breve introduzione alla natura del sistema di scrittura a geroglifici e uno spaccato di un libro che vale la pena di approfondire.
 
 
Si può affermare che nessuna nazione ha mai inventato scrittura più varia nei suoi segni e di un aspetto nel contempo pittoresco e singolare; i testi geroglifici in effetti offrono l’immagine di tutte le classi di esseri racchiusi dalla creazione. Vi riconosciamo:
 
  1. la rappresentazione di diversi corpi celesti: il sole, la luna, le stelle, il cielo, ecc.
  2. l’uomo di ogni sesso, a ogni età, di ogni rango e in tutte le posizioni che il suo corpo e suscettibile di assumere, sia nell’azione, sia nel riposo; inoltre, le diverse membra che lo compongono, singolarmente riprodotte;
  3. i quadrupedi, sia domestici, tipo il bue, la vacca, il vitello, l’ariete, la capra, il caprone, il cavallo, il maiale e il cammello; sia selvaggi, tipo il leone, la pantera, lo sciacallo, il rinoceronte, l’ippopotamo, la giraffa, la lepre, diverse specie di gazzelle e di scimmie;
  4. una sfilza di uccelli, fra i quali osserviamo con pia frequenza la quaglia, lo sparviero, l’aquila, l’avvoltoio, la nitticora, la rondine, la pavoncella, l’oca, l’ibis e parecchie specie di palmipedi e di trampolieri;
  5. alcuni rettili: la rana, la lucertola, il coccodrillo, l’aspide, il ceraste, la vipera, la biscia;
  6. parecchie specie di pesci che vivono ancora nel Nilo;
  7. alcuni insetti, tipo l’ape, la mantide, lo scarabeo, la formica;
  8. infine, una serie di vegetali, di fiori e di frutti.
Un altro genere di segni, altrettanto profusi, mostra la rappresentazione fedele delle attrezzature e dei prodotti delle arti inventate dal genio umano: vi notiamo vasi dal profilo diversificato, armi; calzature e copricapi di ogni specie, mobili, utensili domestici, strumenti agricoli e musicali, gli arnesi di diversi mestieri, immagini di edifici sacri o civili, e quelle di tutti gli oggetti del culto pubblico.
Oltre a ciò, gli elementi della scrittura sacra comprendono un numero abbastanza consistente di forme geometriche. Vengono riprodotti frequentemente linee diritte, curve o spezzate, angoli, triangoli, quadrilateri, parallelogrammi, cerchi, sfere, poligoni, soprattutto le figure pia semplici. Ma non era sufficiente, per questo singolare sistema di scrittura, essersi appropriati, con un’imitazione pia o meno perfetta, delle forme pia varie che l’uomo osserva nella natura vivente e di quelle che la sua mano industriosa impone alla natura inerte; la fantasia venne a sua volta ad accrescere i mezzi espressivi, creando una serie numerosa di nuovi caratteri ben distinti da tutti gli altri, poiché rappresentano combinazioni di forme che l’occhio non scorgerà mai nel campo dell’esistenza reale. Tali immagini sono quelle di esseri fantastici, e per lo più sembrano soltanto i prodotti del pia stravagante delirio: cosi sono i corpi umani uniti alle teste di animali diversi, i serpenti, i vasi stessi, issati su gambe umane, gli uccelli e i rettili a testa umana, i quadrupedi a testa di uccello, ecc.
Tutti questi segni, di classi cosi differenti, si trovano costantemente mescolati insieme, e l’iscrizione geroglifica offre la parvenza di un vero e proprio caos; niente e al suo posto, tutto manca di rapporto; gli oggetti più opposti in natura si trovano a contatto diretto, e producono alleanze mostruose: tuttavia regole invariabili, combinazioni meditate, una prassi calcolata e sistematica hanno incontestabilmente diretto la mano che tracciò questo quadro, in apparenza cosi disordinato; questi caratteri talmente diversificati nelle loro forme, sovente cosi opposti nella loro espressione materiale, servono tuttavia a rilevare una serie regolare di idee, esprimono un senso preciso, logico, e costituiscono cosi una vera e propria scrittura. Oggi non ci sarebbe più consentito di affermare, come si osò un tempo, che i geroglifici sono stati adoperati soltanto per servire da ornamenti agli edifici su cui venivano incisi e che non sono mai stati inventati per raffigurare idee.
Bisogna quindi intendere per geroglifici, una serie di caratteri che, nel loro complesso o nelle loro parti, essendo imitazioni più o meno esatte di oggetti naturali, furono destinati non a una mera decorazione, ma a esprimere il pensiero di coloro che ne regolarono la disposizione e l’uso.
(Jean-François Champollion Compendio del sistema geroglifico, pp. 253-256)

Principi fondamentali della lingua geroglifica

Gli Egizi, possedendo contemporaneamente tre mezzi diversi per esprimere le idee, adoperarono in uno stesso testo quello che pareva loro il più appropriato alla rappresentazione di una data idea. Se l’oggetto di un’idea non poteva essere espresso con chiarezza, procedendo sia in senso proprio con un carattere figurativo, sia metaforicamente con un carattere simbolico, lo scrivano ricorreva ai caratteri fonetici, i quali supplivano egregiamente alla rappresentazione diretta o indiretta dell’idea, con la pittura convenzionale della parola-segno di questa stessa idea…
Risulta infine da tutto ciò che precede, e con piena evidenza:
1) che non c’era nessuna scrittura egizia completamente RAPPRESENTATIVA, come si e creduto che fosse, per esempio, la scrittura messicana;
2) che non esiste, sui monumenti dell’Egitto, una scrittura regolare completamente IDEOGRAFICA, cioè basata sulla sola unione di caratteri figurativi e di caratteri simbolici;
3) che l’Egitto primitivo non si servì affatto di scrittura completamente FONETICA;
4) ma che la scrittura GEROGLIFICA e un sistema complesso, una scrittura nel contempo FIGURATIVA, SIMBOLICA e FONETICA, in uno stesso testo, in una stessa frase, direi quasi nella stessa parola.

(Jean-François Champollion – Compendio del sistema geroglifico, pp. 326-327)

I tre livelli di significato dei geroglifici

Ritroviamo in tutti i testi i caratteri figurativi, i caratteri simbolici e i caratteri fonetici perennemente frammisti e concorrenti, ognuno a loro modo e secondo la loro natura, all’espressione delle idee di cui era il caso di perpetuare il ricordo.
In effetti, fu sicuramente osservato che, nel sistema geroglifico, succedeva che una stessa idea poteva essere espressa – senza che ne derivasse il minimo inconveniente per la chiarezza – con tre metodi differenti e a discrezione di colui che teneva il pennello. Se, per esempio, bisognava citare in un testo la divinità suprema di Tebe, Amon, Amen o Ammon, lo ierogrammata era padrone di segnalare l’idea di questo dio, sia figurativamente, rappresentando in piccolo l’immagine stessa di questo essere mitico, cosi come la si vedeva nei templi della capitale; sia simbolicamente, disegnando le forme di un obelisco o quelle di un ariete sacro, emblemi di Amon; sia infine foneticamente, scrivendo i tre caratteri (IMN)… che costituiscono il nome divino stesso.
(Jean-François Champollion – Compendio del sistema geroglifico, pp. 335-336)

Simbologia e Fonetica

Credo, in effetti, di avere acquisito la convinzione che, da questa facoltà riconosciuta di rappresentare uno stesso suono con una sfilza di segni-immagine completamente diversi, gli Egizi seppero trarre un vantaggio singolare e ben appropriato al genio che l’Antichità intera attribuisce loro: quello di simboleggiare un ‘idea tramite i caratteri stessi che rappresentavano in primo luogo il suono della parola, segno di tale idea nella lingua parlata; di conseguenza, per scrivere i suoni principali e tutte le articolazioni di una parola, poterono scegliere fra i diversi caratteri omofoni che erano padroni di adoperare, quelli che, nella loro forma, rappresentavano oggetti fisici in relazione diretta o convenzionale con l’idea significata dalla parola di cui questi stessi caratteri servivano in primo luogo a esprimere la pronuncia.
Cosi, per esempio, avrebbero preferibilmente espresso la S della parola si, se, sa, figlio, bambino, rampollo, lattante”, con il carattere ovoide (un uovo), poiché rappresenta un germe, un chicco, una semenza… Nel gruppo SA, che ha la stessa valenza, avrebbero adoperato l’oca o chenalopex, perché avevano notato, secondo Orapollo, che questo uccello nutriva una grande tenerezza per i suoi piccoli.

 

(Jean-François Champollion – Compendio del sistema geroglifico, pp. 321-322)

Scrittura Sacra

Nella scrittura sacra, un’idea poteva essere resa indifferentemente sia con caratteri fonetici raffiguranti le parole che ne costituivano i segni nella lingua parlata, sia con un carattere simbolico, il quale esprimeva l’idea e non la parola.

 

(Jean-François Champollion – Compendio del sistema geroglifico, p. 139)

Caratteri simbolici della scrittura

Dopo aver ravvisato soltanto la natura puramente figurativa di un certo numero di segni nella scrittura sacra degli Egizi, si e ancora lontani dall’avere un’idea esatta di questo singolare sistema; infatti i segni di tale gruppo si trovano, per cosi dire, sperduti in mezzo a moltissimi altri, dei quali alcuni dimostrano, soltanto per la loro forma, di dipendere da un metodo espressivo molto diverso da quello dei primi, che esprimono l’idea di un oggetto con la forma stessa di questo oggetto. Quali furono quindi le modalità espressive degli altri caratteri?
A questo proposito gli autori greci ci forniscono nozioni preziose, che l’autorità dei monumenti conferma in tutta la loro portata.
Risulta dalle diverse asserzioni di Clemente Alessandrino, di Diodoro Siculo e da tutto il libro di Orapollo che gli Egizi, nella loro scrittura sacra, procedevano spesso con un metodo simbolico o enigmatico.
In effetti, nell’analisi di diverse iscrizioni geroglifiche, – tentata nei nostri capitoli precedenti – abbiamo osservato alcuni caratteri che esprimerebbero ciascuno l’idea di un oggetto di cui questi stessi caratteri pero di per se non rappresentavano la forma.

 

Questi segni ovviamente sono fra quelli che gli antichi hanno chiamato geroglifici simbolici, tropici ed enigmatici.

(Jean-François Champollion – Compendio del sistema geroglifico, p. 33)

Pare che i caratteri simbolici siano stati particolarmente consacrati alla rappresentazione delle idee astratte che erano di dominio della religione e dell’autorità reale: tali sono, per esempio, nell’iscrizione di Rosetta, le idee di Dio, immortalità, vita divina, potenza, bene, beneficio, Legge o decreto, regione superiore, regione inferiore, panegirico, tempio, ecc.

(Jean-François Champollion – Compendio del sistema geroglifico, p.336)

I segni simbolici della scrittura geroglifica

Nella determinazione dei segni simbolici o tropici, gli Egizi procedettero principalmente:
1) per sineddoche, accontentandosi di dipingere la parte per esprimere il tutto. Così, due braccia che reggono un dardo e un arco significavano una battaglia, un esercito schierato a battaglia; due braccia levate al cielo, un’offerta; un vaso da cui fuoriesce acqua, una libagione…;
2) per metonimia, dipingendo la causa per l’effetto. Ecco perché vediamo, nell’iscrizione di Rosetta, l’idea di “mese” espressa, come dice Orapollo, dall’immagine della falce di luna, con i corni rivolti in basso…;
3) per metafora (cosa che in fondo rientra nello spirito comune dei procedimenti indicati finora), adoperando l’immagine di un oggetto per esprimere una cosa diversa dall’oggetto stesso. Cosi, l’ape significava un popolo obbediente al suo re; le parti anteriori di un leone, la forza; il volo dello sparviero, il vento; un aspide, la potenza della vita e della morte; il coccodrillo, la rapacità.
4) Infine, una sfilza di segni simbolici erano, a dire il vero, effettivi enigmi, poiché gli oggetti di cui questi caratteri presentavano le forme erano in rapporto troppo lontano e quasi puramente convenzionale con l’oggetto dell’idea che si voleva far esprimere. Cosi lo scarabeo era il simbolo del mondo, della natura maschile o della paternità; l’avvoltoio, quello della natura femminile e della maternità; un serpente sinuoso simboleggiava il corso degli astri; e possiamo scorgere in Orapollo e in Clemente Alessandrino, le ragioni che indussero gli Egizi a scegliere queste creature come segni di queste idee cosi diverse e cosi lontane dalla loro natura.

Bisogna soprattutto includere fra i segni simbolici enigmatici, quelli che, nei testi egizi, occupano il posto dei nomi propri delle diverse divinità, caratteri la cui valenza e gia conosciuta in maniera certa.

I nomi divini simbolici sono di due specie.
I primi si compongono di un corpo umano, con o senza braccia, ma la cui testa e sostituita da quella di un quadrupede, di un uccello o di un rettile, ecc. Queste teste di animali, cosi aggiunte al corpo di un uomo o di una donna, danno un carattere speciale a ogni divinità egizia: un uomo con la testa di ariete esprime l’idea di Amon-Knufis; un uomo con testa di sparviero sormontata da un disco, quella del dio Ra; un uomo con testa di sciacallo, quella del dio Anubi, un uomo con testa di ibis, quella del dio Thoth; un uomo con testa di coccodrillo, quella del dio Sobek, ecc. Tali accostamenti mostruosi erano modellati sulle similitudini che gli Egizi avevano stabilito fra certi dei e certi animali, le cui qualità dominanti o le abitudini parvero loro adatte a richiamare alla mente le qualità o le funzioni dei personaggi mitici…
La seconda specie di caratteri simbolico-enigmatici che designano nomi divini consiste semplicemente nella raffigurazione intera dell’animale consacrato a ogni dio o dea; in tal caso gli animali portano le insegne proprie alla divinita di cui essi sono gli emblemi. Cosi, uno sparviero che ha un disco sulla testa esprime simbolicamente il dio Ra; un ariete con le corna sormontate da lunghe piume o da un disco, Amon-Knufis; uno sparviero mitrato, il dio Horsiesi; uno sciacallo armato di frusta, Anubi; un ibis e persino un cinocefalo, specie di scimmia con testa di cane, il dio Thoth, l’Ermete e il Mercurio egizio.

(Jean-François Champollion – Compendio del sistema geroglifico, pp. 290-294)

Nell’usare la metafora, si dipingeva un oggetto che avesse qualche similitudine concreta o generalmente fittizia con l’oggetto dell’idea da esprimere. Cosi, si esprimeva la sublimità con uno sparviero per via del volo elevato di tale uccello; la contemplazione o la visione, con l’occhio dello sparviero, perché si ascriveva a questo volatile la facoltà di fissare lo sguardo sul disco del sole; la madre, con l’avvoltoio perché gli si attribuiva una particolare tenerezza nei confronti dei suoi piccoli, che, si diceva, nutrisse con il proprio sangue; la priorità, la preminenza o la superiorità con le parti anteriori del leone mentre il capo del popolo, il re, con una specie di ape perché questo insetto e subordinato a un comportamento regolare; la devozione, la virtù o la purezza, con uno scettro a testa di upupa, poiché si credeva che questo animale nutrisse con tenerezza i suoi genitori diventati vecchi; uno ierogrammata o scriba sacro con uno sciacallo oppure con lo stesso animale posto su un basamento perché questo funzionario sacerdotale doveva vegliare con sollecitudine, come un cane fedele, sulle cose sacre.

Si procedeva insomma per enigmi adoperando, per esprimere un’idea, l’immagine di un oggetto fisico che avesse soltanto rapporti molto reconditi, esageratamente lontani, spesso persino di mera convenzione, con l’oggetto medesimo dell’idea da trascrivere. Secondo tale metodo, assai vago di per se, una piuma di struzzo significava la giustizia [perché, si diceva, tutte le penne delle ali di quest’uccello sono uguali… ( qui il nostro prende un abbaglio: giustizia perché il cuore/anima dei giusti è leggera come una piuma ndr) .Una stella adoperata in senso simbolico, rammentava l’idea di un dio o di un’essenza divina.

(Jean-François Champollion – Grammatica egizia, capito II)

 

Sulla scrittura dei nomi degli dei

Dopo aver stabilito che i nomi degli dei possono essere scritti in maniera fonetica e figurativa, Champollion constata:

 

Credo di avere anche acquisito la certezza che i nomi di alcuni dei erano scritti in una terza maniera nei testi geroglifici, e che tale trascrizione avveniva secondo un metodo puramente simbolico: Osiride, per esempio, era espresso abitualmente con un occhio e un trono; Iside, con lo stesso trono, seguito dai segni del genere femminile; i nomi di Horns e di Arueris, – divinità che mi sono parse formare un unico e medesimo personaggio nei testi geroglifici dove sono perennemente confusi, – vengono espressi con uno sparviero seguito da una Linea perpendicolare, da uno sparviero con in testa uno pschent, o da uno sparviero armato di frusta o flagello… Cosi veniamo indotti tramite fatti palpabili a riconoscere che, nel sistema geroglifico, gli Egizi scrivevano i nomi dei loro dei in tre maniere diverse:
1) foneticamente;
2) figurativamente, con l’immagine stessa del dio o della dea che si trattava di rammentare;
3) infine simbolicamente, con l’immagine di uno o pia oggetti fisici con cui il dio era direttamente o indirettamente in relazione, secondo le idee proprie del popolo egizio.

(Jean-François Champollion – Compendio del sistema geroglifico, pp. 106-107)

I nomi degli dei

II rispetto profondo che tutti gli antichi popoli dell’Oriente ebbero in generale per i nomi propri dei loro dei bastava gia per indurre gli Egizi a esprimere questi nomi sacri con caratteri simbolici piuttosto che con segni designanti i suoni stessi di tali nomi. In effetti, possiamo vedere nel trattato di Giamblico sui misteri, l’importanza che gli Egizi, e i Greci cresciuti alla loro scuola, annettevano ai nomi degli dei, che ritenevano di istituzione divina, pieni di un significato misterioso, risalenti ai secoli più prossimi all’origine delle cose, e pochissimo suscettibili di essere tradotti in lingua greca. Questi nomi mistici, e vero, sono sovente espressi foneticamente nei testi geroglifici e ieratici; tuttavia, non bisogna dimenticare che i testi di tale genere venivano scritti da membri della casta sacerdotale, e che furono consacrati e concepiti in caratteri destinati soprattutto a redigere materie religiose. Ma nei testi demotici considerati profani e volgari, i nomi degli dei paiono essere sempre stati espressi tramite i simboli, e mai foneticamente: ecco perché gli Ebrei, dovendo scrivere il nome ineffabile, il tetragramma Yahweh-YHWH (Geova), lo rimpiazzavano spesso con un’abbreviazione convenuta, non lo pronunciavano mai leggendo i testi, e vi sostituivano la parola Adonai.

 

L’esame di parecchi manoscritti egizi mi ha anche convinto che, per motivi simili, certi nomi divini geroglifici venivano scritti in una maniera e pronunciati in un’altra.

(Jean-François Champollion – Compendio del sistema geroglifico pp. 302-303)

Simbologia e trasmissione dello spirito

Gli anaglifi propriamente detti o le tavole allegoriche, benché formati in generale da immagini mostruose, erano tuttavia in rapporto diretto con la scrittura geroglifica pura. I testi sacri e gli anaglifi avevano una certa quantità di caratteri comuni, e in questo novero ci furono, per esempio, i segni simbolici, che stavano al posto dei nomi propri di divinità differenti; segni introdotti nei testi geroglifici, in qualche modo, come caratteri rappresentativi degli esseri mitici. Tali furono, secondo i fatti, i rapporti teorici e pratici che legavano le diverse parti del sistema grafico degli Egizi. Questo sistema cosi esteso, figurativo, simbolico e fonetico nel contempo, abbracciava, sia direttamente, sia indirettamente, tutte le arti imitative. Il loro principio non fu in Egitto quello che, in Grecia, presiedette al loro estremo sviluppo: queste arti non avevano come scopo particolare la rappresentazione delle belle forme della natura; tendevano soltanto all’espressione di un certo ordine di idee, e dovevano soltanto perpetuare non il ricordo delle forme, ma quello stesso delle persone e delle cose. L’enorme colosso, come il più piccolo amuleto, erano segni fissi di un’idea; per quanto rifinita o grossolana fosse la loro esecuzione, lo scope veniva raggiunto, poiché la perfezione delle forme nel segno era assolutamente secondaria. Ma in Grecia la forma fu tutto; si coltivava l’arte per l’arte. In Egitto non fu che un mezzo potente di dipingere il pensiero; il più piccolo ornamento dell’architettura egizia ha la propria espressione, e si ricollega direttamente all’idea che motive la costruzione dell’intero edificio, mentre le decorazioni dei templi greci e romani parlano troppo spesso soltanto all’occhio, e Sono muti per lo spirito. Il genio di questi popoli perciò si mostra fondamentalmente diverso. Presso i Greci, la scrittura e le arti imitative si separarono molto presto e per sempre; ma in Egitto, la scrittura, il disegno, la pittura e la scultura marciarono costantemente a fianco a fianco verso una medesima meta; e se consideriamo lo stato particolare di ciascuna di queste arti, e soprattutto la destinazione dei loro prodotti, possiamo affermare che si erano appena confuse in una sola arte, nell’arte per eccellenza, la scrittura. I templi non erano, se possiamo esprimerci cosi, che grandi e magnifici caratteri rappresentativi delle dimore celesti: le statue, le immagini dei re e dei semplici individui, i bassorilievi e le pitture che rievocavano in senso proprio scene della vita pubblica e privata, rientravano, per così dire, nella classe dei caratteri figurativi; e le immagini degli dei, gli emblemi delle idee astratte, gli ornamenti e le pitture allegoriche, insomma la numerosa serie degli anaglifi, si collegavano in maniera diretta al principio simbolico della scrittura propriamente detta.

(Jean-François Champollion – Compendio del sistema geroglifico, pp. 364-365)

Terminologia Antico Egitto

In questa breve raccolta di termini, alcuni dei quali giunti fino a noi attraverso i millenni, possiamo esplorare l' Antico Egitto. Possiamo per esempio scoprire che la parola Piramide non è affatto d'origine egiziana ma greca, anche se i grandi monumenti che noi conosciamo come piramidi non sfuggono a nessuno essere il monumento dell'antichitò egiziana per eccellenza.

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Anubi (Anpu o Inepu)

Geroglifico rappresentante il nomde di ANUBiIl dio Anubi, dio dell’antico Egitto è raffigurato con la testa di cane nero (ritenuta da alcuni testa di sciacallo). La sua origine è incerta e si per de nella notte dei tempi. Già dall’epoca di Aha una tavoletta menziona la sua festa e, fino alla fine della V dinastia, quando Osiride farà la sua prima comparsa, è unicamente Anubi a presiedere al culto funerario. Anubi era inoltre l’emblema del XVII nomos del Sud, la cui capitale, Kasa (Cynopolis), gli tributava un culto particolare.

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