Il nuovo imperialismo

Nell’Europa tra le due guerra era oramai venuto a mancare il pensiero liberistico, sostituito a picconate dal fiorire di regimi totalitaristi come quelli tedesco, italiano e spagnolo. Anche nazioni in cui il sistema di governo era maggiormente democratico non si trascurò di usare il pugno di ferro per mantenere il dominio sulle proprie colonie, con diverse sfumature ne sono un esempio Gran Bretagna e Francia.

 

 

Proprio mentre in Europa il liberalismo veniva perdendo progressivamente terreno rispetto all’autoritarismo a causa delle forze reazionarie e conservatrici che riuscivano ad impadronirsi del potere in molti Paesi, la posizione di predominio ormai da secoli esercitata dagli Europei sulle popolazioni afro-asiatiche appariva decisamente indebolita:
il vecchio mondo coloniale presentava infatti chiari elementi di crisi in virtù proprio di quel principio di nazionalità e di autodecisione, che, dopo avere costituito una delle note dominanti della storia europea del secolo XIX, andava a poco a poco conquistando anche gli altri continenti.
La prima a risentire le conseguenze della spinta dei popoli afro-asiatici verso la libertà e l’indipendenza fu l’Inghilterra, il cui impero era considerevolmente aumentato dopo la guerrà mondiale in seguito all’annessione della maggior parte delle colonie tedesche.
Un’operazione, questa, che le aveva permesso di passare dai 36 ai 39 milioni di chilometri quadrati di dominio diretto con circa 500 milioni di abitanti: un quarto della intera superficie e popolazione del mondo, cui erano da aggiungere molte altre parti del globo poste sotto il suo dominio indiretto: si pensi in particolare alla nevralgica area palestinese, mesopotamica e araba, dove dopo l’attuazione dei «mandati» Francesi ed Inglesi non poco per la salvaguardia del proprio potere nelle rispettive zone di influenza.
Tuttavia, mentre i Francesi reprimevano con durezza le reiterate e violente agitazioni provocate tra il 1920 e il 1927 dal movimento indipendentista in Siria, gli Inglesi, pur difendendo i propri initeressi coloniali: si mostrarono diplomaticamente duttili,riconoscendo nel 1921 – sulla base di una condizione di effettiva semidipendenza – l’emiro Feysal come re dell’Iraq e suo fratello Abdullah ibn Hussein quale sovrano della Transgiordania, sostanzialmente corrispondente all’odierna Giordania e resa di fatto indipendente nel 1923.
Più sofferta invece la posizione dell’Iran specie dopo la scoperta della presenza del petrolio nel sottosuolo del Paese, che, intervenuta nel 1927, conferì particolare importanza alla regione, cui gli Inglesi decisero di concedere una completa indipendenza soltanto nel 1932.
Ciò nonostante, la pace restava ancora lontana dalla tormentata regione. Infatti, mentre da una parte le popolazioni kurde promuovevano aspre agitazioni autonornistiche, cui l’Iraq si opponeva con pesanti azioni repressive, dall’altra si registrava una presenza sempre più massiccia ed intraprendente degli Ebrei in Palestina, dove sin dal novembre 1917 gli Inglesi avevano progettato la costituzione di uno Stato ebraico, con il risultato di provocare un crescente risentimento degli Arabi al punto di indurli nel l936 a sottoscrivere un primo trattato di amicizia panaraba, cui aderirono l’Iraq (Stato Promotore).

Quasi contemporaneamente però anche l’India si andava incamminando verso la libertà. Essa aveva trovato il suo campione in Mohandas Gandhi (1869-1948), detto Mahatma (= Grande Anima), brillante avvocato e uomo politico, il quale fin dal 1921 si era impegnato con energia ad avviare il suo popolo verso una più profonda coscienza civile e un più vivo desiderio di libertà, incitandolo non alla violenza e alla rivolta armata, ma alla resistenza passiva, alla non collaborazione civile, alla disobbedienza collettiva e pacifica;
la sua propaganda invitava i connazionali a non acquistare prodotti occidentali, a non agevolare gli Inglesi, a non favorirlì in alcun modo nelle loro richieste, al fine di paralizzare ogni attività nella colonia e costringere i dominatori a concedere l’indipendenza al Paese.
Fu per l’appunto battendo tale via che Gandhi divenne ben presto l’Òpostolo di un nuovo modo di vita, attraverso il quale tutti gli uomini possono perseguire e debbono ottenere il riconoscimento dei loro diritti.
La politica espansionistica del giappone ai danni della Cina
Nel frattempo in Asia si era venuto sviluppando come nuova potenza coloniale il Giappone. Sovrappopolato e intraprendente e per di più reso orgoglioso dall’aumento dei propri possedimenti territoriali nel continente a scapito delle ex-colonie tedesche, perseguiva anch’esso una politica imperialistica.
Il governo giapponese infatti, specie dopo che ebbero a prevalere politicamente nel Paese i conservatori e la casta dei militari, aveva dato inizio con il 1921 ad una luima serie di conquiste ai danni della Cina.
Ne derivò una situazione assai complessa, che comportò tra il 1921 e il 1925 persino una guerra fra Russia e Giappone – ugualmente interessati alla Cina – e un successivo intervento della Società delle Nazioni. Ciò provocò l’abbandono dell’assemblea da parte del Giappone e un suo più deciso intervento armato in territorio cinese con la conseguente occupazione, nel 1931, della Manciuria subito trasformata in Stato satellite di Tokio sotto il nome di Manciukuò (1932).
La politica di aggressione ai danni del cinese era del resto favorita dal comportamento delle grandi potenze europee, che ancor prima della guerra mondiale si erano rese conto del rilevante peso assunto dal Giappone nello scacchiere orientale e quindi anche dei possibili vantaggi che esse avrebbero potuto trarre da una politica filonipponica.

Infatti contemporaneamente ad una politica espansionistica di tipo miutare il Giappone si avviava a grandi passi ad attuarne un’altra di tipo ndustriale e commerciale, intensificando la propria penetrazione in tutti i mercati del mondo con una enorme quantità di prodotti venduti a prezzi concorrenziali, grazie soprattutto al basso costo della manodopera.
In tale ottica non esitarono a sacrificare agli interessi nipponici la più debole Cina, alla quale altro non restò da fare che difendersi non solo riorganizzando un movimento antimperialista ed anticolonialista, teso ad ottenere oltre all’indipendenza la democrazia rappresentativa e l’abolizione delle antiquate strutture sociali ancora in atto nel Paese – il cosiddetto Kuomintang o «Partito nazionale del popolo» – ma anche avvicinandosi militarmente alla Russia comunista con una iniziativa, che assunse ben presto particolare importanza nelle province centro-meridionali, dirette da un medico di Canton, Sun Yat-sen (1866-1925), mentre le province del Nord, dominate dal generale conservatore Yuan Shi-kai (1859-1916) e, alla sua morte, dai cosiddetti «signori della guerra» – un ristretto numero di governatori militari provenien ti dai ricchi ceti agrari – rimanevano legate agli Occidentali e tendevano a mostrarsi contrarie ad ogni riforma democratica.

Stando così le cose, divenne inevitabile fra le due opposte fazioni uno scontro armato, che si risolse con la vittoria delle truppe del Kuomintang comandate dal generale Chang Kai-shek (1887-1975), al quale però non riuscì di sedare, nel 1927, un feroce attrito all’interno del suo stesso schieramento fra le forze moderate legate allo stesso Kuomintang e quelle rivoluzionarie comuniste di tipo sovietico, raccolte nell’« Armata rossa» e coagulate attorno alla persona di Mao Tse-tung (1893-1976), un giovane membro del Partito comunista cinese (Pcc) fondato con l’aiuto di Mosca fin dal febbraio del 1921.

La guerra civile

Fu così che il Paese tornò ad essere lacerato dalla guerra civile. Cacciato dalle città, Mao Tse-tung seppe imporsi nelle campagne e dare vita nel 1931 ad una repubblica sovietica cinese nel Kiangsi, mentre le armate di Chang Kai-shek, dopo ripetute «campagne di annullamento», riuscivano fra il 1933 e il 1934 ad infliggere duri colpi al comunismo cinese.
Fu allora che nell’ottobre 1934 i superstiti dell’Armata rossa, per sfuggire alla sicura distruzione ad opera dell’esercito di Chang, iniziarno sotto la guida di Mao la Lunga marcia che li avrebbe condotti nel giro di un anno in condizioni estremamente penose e difficili attraverso un percorso di circa 10.000 chilometri dallo Kiangsi meridionale alla regione impervia e montagnosa dello Shensi settentrionale, ove nella città di Yenan il giovane «condottiero» stabiliva il suo nuovo quartier generale e dava vita ad una repubblica comunista.

A questo punto, mentre dalla Manciuria i Giapponesi nel 1937 davano inizio ad una nuova e più ampia invasione occupando anche la Cina orientale da Pechino a Shangai, fu gioco-forza per Chang Kai-shek e Mao Tse-tung operare un riavvicinamento al fine di coagulare tutti i loro sforzi per l’attuazione di una politica di unità nazionale contro il comune nemico invasore.
Così nel 1937 Chang accolse l’appello lanciato da Mao e mise fine alla guerra civile, accettando una tregua fra il Kuomintang e i comunisti, i quali non solo rinunciarono a rovesciare il governo di Chang, sciogliendo quello proprio, ma accettarono anche di incorporare l’Armata rossa nell’esercito nazionale cinese. Aveva inizio così nel luglio 1937 la guerra cino-giapponese, che si sarebbe protratta con fasi alterne per oltre otto anni, inserendosi nel complesso quadro dei drammatici avvenimenti legati al secondo conflitto mondiale.

La politica aggressiva dell’Italia contro l’Etiopia

Nel frattempo pure l’Italia fascista manifestava apertamente le sue aspirazioni imperialistiche, decisa come era ad ottenere una clamorosa affermazione di prestigio e a dimostrare al mondo la solidità interna del regime.
Nel 1935 infatti, Mussolini riapriva la questione dei rapporti con l’Etiopia, retta dal negus Hailé Selassié.
La conquista di un grande impero, che servisse da sfogo alla manodopera in eccesso, poteva sembrare agli Italiani una vantaggiosa iniziativa, tanto più che quella vasta zona dell’Africa orientale era una delle poche rimaste libere dal diretto intervento delle potenze coloniali e – nonostante un’economia ancora arretrata basata soprattutto sulla pastorizia – risultava dotata di molte risorse potenziali, specie sull’altopiano, che prometteva ricchezza agricola, cotone, gomma e risorse minerarie.
Inoltre l’Etiopia vera fortezza naturale e pressocchè inespugnabile se fosse stata presidiata da un potente esercito, avrebbe dato allo Stato europeo che se ne fosse impadronito una posizione strategica di primo ordine nell’Africa orientale in quanto dominante da una parte sull’alta valle del Nilo e dall’altra sul Mar Rosso e sulla via delle Indie.
Una simile impresa era però anacronistica: l’epoca del colonialismo si avviava infatti al tramonto e i popoli colonizzati avvertivano ormai sempre più viva l’esigenza della libertà e dell’indipendenza.

D’altra parte, la rottura dell’equilibrio di forze fra le potenze europee era un’impresa di imprevedibili conseguenze, visto che l’iniziativa non poteva lasciare indifferenti né la Francia né l’Inghilterra e neppure la Società delle Nazioni, di cui l’Etiopia sin dal 1923 era divenuta uno Stato membro, su presentazione dell’Italia e della Francia, in quanto Stato sovrano con pienezza di diritti.
Mussolini, tuttavia, adducendo come pretesto un attacco di bande etiopiche contro un presidio italiano sulla frontiera non ben delimitata tra la Somalia e l’Ogaden, il 3 ottobre 1935 – senza dichiarazione di guerra, né altra motivazione ufficiale che la «missione civilizzatrice» dell’Italia e il suo diritto ad un «posto al sole» – dette inizio alle ostilità, ordinando alle truppe presenti in Eritrea e in Somalia, rinforzate da un corpo di spedizione, di superare il confine.
Il 2 novembre, un mese dopo l’iniziativa mussoliniana, cinquantadue Stati membri della Società delle Nazioni, dichiarando l’Italia colpevole di una vera e propria aggressione, decisero di applicare nei suoi riguardi le sanzioni econoiniche, che, entrate in vigore il 18 successivo, imponevano – oltre al blocco della fornitura di armi e al rifiuto di prestiti al governo italiano – il divieto ai Paesi membri di acquistare merci in Italia o di venderne a credito.
Le sanzioni, comunque, sia per la debolezza istituzionale della Società delle Nazioni sia per le troppe divisioni tra i suoi membri finirono per essere attuate molto blandamente e per di più sospese nove mesi dopo (luglio 1936) senza conseguire l’effetto desiderato: e ciò anche a causa della non avvenuta interruzione degli scambi commerciali con l’Italia da parte degli Stati Uniti e della Germania che non erano membri dell’assemblea: i primi per non avervi aderito in seguito all’isolazionismo; l’altra per esserne uscita nel 1933. Le sanzioni finirono pertanto per offrire buoni spunti di propaganda al fascismo, che ebbe modo così di esaltare la prova di fermezza e di resistenza offerta dal regime.
Così il 9 maggio 1936, dopo sette mesi di campagna militare condotta con estrema durezza soprattutto dai marescialli Pietro Badoglio (1871 – 1956) e Rodolfo Graziani (1882-1955), Mussolini poté annunciare la fine della guerra e la costituzione di un «impero dell’Africa orientale italiana» sotto Vittorio Emanuele III ormai non più soltanto re d’Italia, ma anche imperatore d’Etiopia.
Fu quello il momento in cui il duce, come «fondatore dell’impero», conseguì la maggiore popolarità, e nello stesso tempo il momento nel quale apparve più chiara la diminuzione del prestigio della Società delle Nazioni, che non era riuscita ad imporre la volontà collettiva a chi – come l’Italia – aveva trasgredito il patto societario e scelto la via della guerra. D’altra parte, l’Italia LA SITUAZIONE INTERNAZIONALE: l’epoca del nuovo imperialismo

 

La Germania Hitleriana

La trasformazione più importe in senso imperialista e militarista stava però nel frattempo verificandosi nella Germania hitlerriana, che non solo aveva ormai da tempo dichiarato superati gli accordi di Versailles e si era ritirata dalla Società delle Nazioni (ottobre 1933), ma aveva avuto anche modo di trarre nuovi motivi di fiducia in sé stessa in seguito al successo conconseguito nella Saar, la ricca regione che i vincitori avevano internazionalizzato per quindici anni e che con il plebiscito del 13 gennaio 1935 aveva liberamente espresso la propria volontà sull’annessione alla Francia o alla Germania con il 90% di voti a favore di quest’ultima.
Inorgoglito per questo risultato, Hitler non tardò ad intensificare la propria politica di riarmo, procedendo nel marzo al ripristino del servizio militare vietato dal trattato di Versailles: iniziativa, questa, alla quale seguirono le immediate proteste della Francia, dell’Inghilterra e della stessa Italia, che però si limitarono a ribadire la validità degli equilibri concordati nel 1924 a Locarno.
Tutto questo spiega come mai Hitler nel marzo l936, approfittando, della guerra etiopica in atto, non ebbe remore nell’ordinare alle sue truppe di occupare la Renania, smilitarizzata sin dal 1918, con una iniziativa che violava un’altra clausola del trattato di Versailles.
Ciononostante, il rafforzamento tedesco sui confini occidentali non determinò un’adeguata risposta da parte né della Francia, né dell’Inghilterra, le quali altro non seppero fare che rinnovare ancora una volta le loro formali proteste.
La mancanza di reazioni a livello europeo doveva però avere in questa circostanza conseguenze gravissime: essa infatti offrì a Hitler un sempre maggior senso di sicurezza e lo convinse a stipulare nell’ottobre 1936 un accordo con l’Italia, che, secondo una definizione dello stesso Mussolini, prese il nome di Asse Roma-Berlino e che – pur non avendo le caratteristiche una vera e propria alleanza – costituiva il riconoscimento di un rapporto sempre più stretto fra i due Paesi.
L’accordo prevedeva – oltre all’impegno comune di lottare contro il «pericolo bolscevico» – una reciproca consultazione su tutte le questioni d’importanza internazionale. Il fronte alleato della prima guerra mondiale fu così definitivamente infranto e l’Europa si ritrovò divisa in due blocchi contrapposti
Proprio questo atteggiamento passivo e rinunciatario dei governi inglese e francese (più preoccupati del pericolo comunista sovietico che di quello germanico) contribuì a rafforzare nel dittatore tedesco il disprezzo per le democrazie e una piena fiducia nella sua politica aggressiva.

Hitler infatti, sbandierando il mito (a cui sapeva sensibile il suo popolo) della riunione in un unico Stato di tutti i Tedeschi, ordinava nel marzo 1938 alle proprie truppe di occupare Vienna e prima ancora che l’Europa stupita si riavesse, proclamava l’Anschluss ovvero l’annessione dell’Austria alla Germania, schiacciando ogni segno di resistenza: né Mussolini si mosse.

Si cominciò allora ad avvertire vicino il pericolo di uno spaventoso conflitto: la Cecoslovacchia infatti non sembrava disposta a subire le imposizioni del dittatore.
Per evitare la guerra, alla quale era del tutto impreparato il governo inglese incaric&grav; il suo primo ministro Arthur Nevi11e Chamberlain (1869-1940) ad avviare un tentativo di mediazione con Mussolini: nel corso di una drammatica conferenza internazionale tenuta a Monaco (settembre 1938) si riuscì infatti a salvare la pace ma a spese della Cecoslovacchia, che con il che con il consenso della Francia e dell’Inghilterra si vide costretta a cedere il territorio dei Sudeti.
Fu in realtà una grande vittoria diplomatica per Hitler: deciso a perseguire nella tecnica dei «colpi di forza», che gli aveva consentito la conquista del potere all’interno e una serie di successi internazionali, nel marzo del 1939 fece invadere la stessa repubblica cecoslovacca, annettendo alla Germania gran parte del suo territorio (Boemia e Moravia) A sua volta Mussoli, temendo che la crescente potenza dell’alleato gli togliesse ogni capacità di iniziativa, nell’aprile di quell’anno senza alcuna giustificazione occupava l’Albania.
A questo punto le potenze democratiche finirono per comprendere che bisognava resistere: di quì la firma di una serie di trattati di garanzie territoriali con gli Stati confinanti con la Germania.
Incurante di ciò, Hitler i1 21 marzo 1939 intimava dinanzi al Reichstang la cessione da parte della Polonia del <> di terra, che divideva la Prussia orientale dal territorio tedesco e che era stato concesso dopo l’ultima guerra ai polacchi perchè avessero uno sbocco sul Mar Baltico: al termine di questo «corridoio» era situato il porto della città libera di Danzica.
Francia e Inghilterra allora orami stanche dei ricatti del dittatore tedesco e convinte che egli non si sarebbe arrestato che davanti alla forza, dichiararono solennemente di essere pronte di dare pratico corso agli impegni assunti assicurando alla Polonia la loro protezione.

Per tutta risposta il 22 maggio Italia e Germania stipularono un trattato di alleanza militare ilPatto d’acciaio (esteso poi al Giappone), che impegnava le due potenze prestarsi reciproco aiuto in caso di guerra.
A sua volta, due mesi dopo, cogliendo di sorpresa l’Europa, la Germania anticomunista sottoscriveva un patto di non aggressione con l’Unione Sovietica in vista della spartizione della Polonia (23 agosto 1939): patto, determinato dalla volontà di Hitler di proteggersi le spalle in caso di conflitto con le potenze occidentali e dal desiderio di Stalin di ottenere un periodo di tempo sufficiente per preparare il proprio Paese alla eventualità di una guerra contro lo stesso Hitler.
Così, il 1° settembre, incoraggiato dal nuovo successo conseguito sul piano diplomatico e sicuro ormai da sorprese militari provenienti da Oriente, Hitler ordinava alle sue truppe di invadere il territorio polacco.
Da quel momento tutto fu vano: dall’appello del nuovo pontefice Pio XII (1939-1958) al messaggio del presidente americano Roosevelt e ad un estremo tentativo fatto da Mussolini per ottenere una «seconda Monaco». Il dittatore tedesco, ormai troppo forte, fu irremovible.
Pertanto alla Francia e all’Inghiterra, consapevoli che ormai era in gioco la libertà di tutti i popoli, non restò che dichiarare aperte le ostilità. Aveva inizio così la seconda guerra mondiale.

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