Impresa di Fiume

Durante il 1919 concluso con il 1° Conflitto mondiale, il progetto del trattato di pace prevedeva il passaggio della città istriana alla Jugoslavia. Il Poeta-soldato Gabriele D’Annunzio dalle smanie eroiche la occupò con un centinaio di legionari improvvisati. Provocando un pasticcio politico-diplomatico a livello internazionale

 

 

La vicenda di Fiume italiana, dal colpo di mano di D’Annunzio del 12 settembre 1919 fino al Natale di sangue dell’anno successivo (quando i legionari dannunziani vennero sloggiati dalle truppe regolari italiane) occupa in genere nei testi di storia poche e frettolose righe.
 
 

Certo, è facile obiettare che in quegli anni, gli anni della delusione e del disordine del dopoguerra, l’Italia era immersa in problemi enormi, guidata da una classe politica vecchia ed inetta, che avrebbe spianato la strada al Fascismo. Ed è vero che la vicenda di Fiume, creatura e al tempo stesso vittima dello straripante protagonismo di D’Annunzio, non contribuì in sé stessa a mutare il corso degli avvenimenti nazionali, procurando semmai qualche guaio in più ed aumentando una confusione che già era ben sopra i livelli di guardia.

 

Ma se invece leggiamo la vicenda di Fiume sotto un’altra ottica ci accorgiamo di come essa sia, al di là delle sue limitate dimensioni, di estremo interesse per comprendere meglio l’Italia di allora e in genere il Vecchio Mondo, immersi in una serie di problemi che la Grande Guerra aveva solo rimandato e in buona parte aggravato.

L’avventura di Fiume non sarebbe esistita senza D’Annunzio, ma D’Annunzio non avrebbe potuto intraprenderla se non avesse avuto da cavalcare un clima spirituale, sociale, politico che la rese possibile. Gabriele D’Annunzio, pescarese, classe 1863, allo scoppio della Grande Guerra aveva già dato il meglio di sé come poeta, scrittore, drammaturgo.

 

Il suo nome era famoso anche fuori Italia, non solo come letterato, ma anche come tombeur de femmes e come produttore instancabile di debiti: un lungo soggiorno in Francia (durante il quale compose opere in italiano e in francese, una delle quali, Canzoni delle gesta d’oltremare, in celebrazione della guerra libica) fu una fuga da un numero eccessivo di creditori, che ottennero dal Tribunale il sequestro della villa che il poeta possedeva a Settignano e la vendita all’asta della mobilia.

 

Nel conflitto tra interventisti e neutralisti, D’Annunzio si schiera senza esitazioni coi primi e durante la Grande Guerra (riuscì ad arruolarsi nonostante fosse ormai ultracinquantenne), diventa protagonista di imprese clamorose per mare (la beffa di Buccari) come nel cielo, col clamoroso volo su Vienna. Perde un occhio in battaglia e alla fine delle ostilità è ormai una gloria nazionale indiscutibile, il poeta-soldato, Medaglia d’Oro, modello di vita oltre che di arte, messaggero di vita inimitabile. In pace come in guerra, nell’alcova come nei rapporti finanziari, ha sempre vissuto in modo unico, ha sempre cercato i gesti e gli atteggiamenti che lo distinguessero, come da giovane deputato poco più che trentenne, quando passò con irruenza da un’estrema all’altra dello schieramento politico, senza peraltro mai aver espresso una linea politica definita. La sua arte è indiscutibile come il suo ingegno; ma anch’egli è un uomo, e anch’egli ha contratto in guerra una malattia molto diffusa: quello strano morbo per cui si diventa reduci, con tutte le conseguenze che questo comporta. Fiume, affacciata sul golfo omonimo nell’Adriatico settentrionale, era una delle più floride città dell’impero austro – ungarico.

 

Centro principale del sistema ferroviario che serviva Praga, Budapest, Belgrado e Zagabria, costituiva lo sbocco naturale del commercio che si svolgeva tra queste città e l’Occidente. Attualmente Fiume fa parte del territorio della Croazia, ma dal XVIII secolo la città era sotto controllo ungherese, e prese così a sviluppare una certa indipendenza, data la lontananza dei governatori ungheresi. Peraltro il conflitto tra croati e magiari per il predominio fu la costante di Fiume; i suoi abitanti, forti anche della costituzione in porto franco della città, decisa nel 1717 dall’imperatore Carlo VI, si adoperarono per ottenere un proprio stato giuridico speciale.

 

Alla fine del secolo XVIII l’imperatrice Maria Teresa concedeva a Fiume lo status speciale di corpus separatum. La particolare posizione geografica e lo speciale stato giuridico favorirono lo sviluppo di Fiume non solo come centro commerciale, ma pure come città cosmopolita, grazie anche al blando controllo esercitato dalle autorità ungheresi, che non volevano imporsi ai fiumani, preferendo sfruttarne la crescente prosperità finanziaria. Da parte croata invece era costante il tentativo di integrare Fiume nelle tradizioni slave, con l’intenzione palese di annettere la città alla nazione croata. L’accesa rivalità tra i due gruppi indusse gli ungheresi, nella seconda metà del XIX secolo, ad iniziare un’intensa propaganda per attirare nella città gli uomini d’affari italiani, con lo scopo di procurarsi alleati occidentali e di costituire una forte borghesia che si sarebbe impegnata nella difesa di Fiume contro gli slavi.

 

La comunità italiana di Fiume crebbe rapidamente, divenendo ben presto il gruppo più importante e vivace, costituito fondamentalmente da ricca borghesia, opposta ad una classe lavoratrice composta per lo più da croati e aggiungendo così un antagonismo di classe alle tradizionali tensioni politiche ed etniche tra i due gruppi originari. L’alleanza italo – ungherese (che aveva il controllo del municipio) in funzione anti-croata andò però via via deteriorandosi col manifestarsi delle tendenze scioviniste in seno alla comunità italiana. Quando l’impero austro – ungarico si decompose alla fine della Grande Guerra e la città venne occupata dalle truppe iugoslave, gli irredentisti insorsero, accampando il fatto che Fiume era un centro etnicamente italiano.

 

In realtà, su 50.000 abitanti, erano di lingua italiana circa la metà; ma costituivano la parte più attiva e infatti istituirono subito un Consiglio Nazionale, che all’indomani di Vittorio Veneto proclamò l’annessione all’Italia, inviando emissari a Roma, dal primo ministro Orlando, per perorare la causa. Fiume non faceva parte del pacchetto delle rivendicazioni italiane presentate a Londra nel 1915, e accettate dagli alleati, quando l’Italia decise l’entrata in guerra contro gli imperi centrali.

 

Il pacchetto prevedeva l’assegnazione all’Italia del Trentino fino al Brennero, di Trieste e le Alpi Giulie, di tutta l’Istria, di quasi tutta la Dalmazia, Valona e il suo entroterra albanese e il Dodecanneso.

A Fiume nessuno aveva pensato, anche perché la comunità italiana di quella città aveva ben pochi legami con la madrepatria; ma l’occupazione della città da parte delle truppe slave, con tutta la minaccia di integrazione forzata che questo comportava, aveva indotto gli italiani di Fiume a formulare l’appello, di cui dicevamo sopra, al primo ministro Orlando.

 

Fiume si faceva forte del suo antico stato giuridico speciale e reclamava il proprio diritto alla autodeterminazione. Resta un dato di fatto inconfutabile, e cioè che la maggioranza, seppur risicata, di Fiume città era etnicamente italiana (Al censimento del 1910, su 50.000 abitanti in Fiume città, 24.000 erano italiani, 15.000 croati e il resto di altre nazionalità, con una predominanza di quella ungherese). Ma è altrettanto vero che se il sobborgo croato di Sussak (di fatto il quartiere operaio di Fiume), dove vivevano circa 15.000 persone, fosse stato considerato parte integrante del territorio municipale, la maggioranza sarebbe stata dei croati, contando questi ultimi, come abbiamo visto, altri 15.000 abitanti tra i 50.000 che costituivano la popolazione di Fiume città.

 

Orlando e il suo ministro degli esteri, Sonnino, ricevettero l’appello del Consiglio Nazionale di Fiume in un momento delicato: la conferenza della pace di Versailles doveva fare i conti con l’intransigenza del presidente americano Wilson, che non accettava le clausole del Patto di Londra (al quale non aveva partecipato). Wilson riconosceva il diritto dell’Italia al Brennero come sua "frontiera naturale", ma non ammetteva che un milione di slavi della Dalmazia fossero trasferiti "come un gregge" entro i confini italiani; infine il presidente americano considerava Fiume più necessaria alla neonata Jugoslavia che all’Italia. Mestiere dei diplomatici è trattare, e le conferenze si fanno proprio per trovare un accordo tra posizioni diverse.

 

Ma Sonnino ed Orlando si sentivano pressati da un’opinione pubblica che dava segni di pericolosa agitazione: l’Italia di Vittorio Veneto, sbolliti gli entusiasmi per la vittoria, fatti i tristi conti delle perdite (600.000 morti ed oltre mezzo milione di mutilati), con un costo della vita quadruplicato e un disavanzo salito a 23 miliardi (del 1919!) tuonava contro la vittoria mutilata imposta dal presidente americano. Come sempre nella Storia, tuonava una minoranza, ma era una minoranza forte e aggressiva, composta principalmente dai reduci (molti dei quali riuniti nei Fasci di Combattimento fondati da Mussolini) che reclamavano il diritto di intervenire nelle decisioni; e la voce più illustre che guidava questa protesta era quella del poeta – soldato.

 

E come sempre, una protesta sui problemi meno immediati ma più carichi di tensione emotiva aiutava a dimenticare l’incombenza di altri problemi più seri, primo tra i quali la crisi che gravava sulle industrie, patologicamente gonfiate dai consumi di guerra, e che avrebbe causato un aumento vertiginoso dei disoccupati. Orlando, suggestionato da questo clima e preoccupato che potessero nascere moti insurrezionali, anziché cercare un compromesso, restò fermo nelle pretese sulla Dalmazia ed aggiunse la richiesta di annessione di Fiume all’Italia, ordinando anche, in risposta all’appello del Consiglio Nazionale, lo sbarco di alcuni reparti militari a Fiume.

A Versailles le discussioni diventarono così dei testa – testa senza vie d’uscita, mentre a Fiume la situazione si faceva esplosiva, col rischio di scontri tra le truppe italiane e quelle iugoslave, e del riesplodere dei conflitti etnici, tanto che si decise l’intervento delle altre Potenze, ponendo la città sotto il controllo di una guarnigione militare interalleata, ma al comando del generale italiano Grazioli.

 

Intanto Wilson, con delicatezza tutta americana, faceva appello direttamente al popolo italiano, invitandolo alla moderazione e al rispetto dei diritti delle altre nazionalità. Di fronte a questa palese scorrettezza Orlando e Sonnino, dimentichi del fatto che in politica gli assenti hanno sempre torto, abbandonarono per protesta la Conferenza, tornando però precipitosamente il 5 maggio, quando si resero conto che gli alleati andavano avanti anche senza di loro e stavano spartendosi i resti delle colonie tedesche in Africa, di cui l’Italia riuscì a raccogliere gli spiccioli.

Umiliato e scoraggiato Orlando tornò a Roma e il 19 giugno (siamo nel 1919) una Camera ostile lo sfiduciò a larga maggioranza. Il suo successore, Francesco Saverio Nitti si trovò così tra le mani la patata bollente di Fiume, la cui situazione strideva col proposito espresso dal neo primo ministro di trarre l’Italia dalle sabbie mobili in cui si era ficcata a Versailles con le impennate di orgoglio e di puntiglio. E prima di passare alla cronaca dell’impresa dannunziana di Fiume, cerchiamo di fare un attimo il punto sulla situazione nazionale al momento dello scambio di consegne tra Orlando e Nitti.

 

L’Italia viveva un momento delicatissimo perché alla crisi economica causata dal conflitto si sommava la crisi (ben più grave) delle coscienze, strascico inevitabile di tutte le guerre. Parlando di D’Annunzio sottolineavamo come anche lui fosse un reduce; e, con tutto il rispetto per chi in guerra soffrì, il reducismo è una malattia grave, e i fatti lo dimostrano. Anni di guerra impediscono a molti di ritrovare la dimensione della pace, di accettare la fatica di affrontare i problemi con calma e ponderatezza; l’abitudine alla violenza, vissuta per anni come norma quotidiana e come risolutrice del problema bellico immediato (la distruzione del nemico), è dura da perdere. Non a caso i più violenti nella violenza generalizzata della guerra, gli Arditi, costituirono il più cospicuo serbatoio di uomini sia per le squadre fasciste che per le legioni di D’Annunzio.

 

A ciò si aggiunga quel clima di sbandamento culturale che l’Europa viveva dall’inizio del secolo; i messaggi futuristi di Marinetti, con l’esaltazione dell’azione fine a sé stessa, con la proclamazione della bellezza della guerra trovavano facile presa soprattutto tra i giovani, che vivevano indubbiamente un momento di smarrimento, perché il XX secolo, nella sua ansia di creare nuovi valori, nella sua sconfinata fiducia nel progresso, aveva in verità creato un grande vuoto. E contro la paura, contro lo smarrimento, è bello essere in tanti, essere pieni di energia, vivere la vita come una sfida continua.

 

Fa impressione, leggendo le opere di D’Annunzio, la contrapposizione tra un’eleganza formale squisita unita a una capacità unica di costruire il linguaggio e l’assoluta mancanza di veri contenuti e valori, salvo che si vogliano considerare come tali l’esaltazione della vita eroica, la concezione dell’uomo superiore capace di cogliere una sorta di completezza di sensazioni, anche e soprattutto esasperate, che siano di godimento o di dolore, di dominio o di sacrificio.

Tutto ciò pare, a nostro avviso, piuttosto come espressione di un qualcosa che ci sentiremmo di definire onanismo intellettuale assurto a modello letterario.

 

D’Annunzio, come dicevamo, tuonava sulle piazze contro la vittoria mutilata e intanto gli avvenimenti a Fiume precipitavano. Il 6 luglio 1919, in uno dei tanti scontri che a Fiume si verificavano tra irredentisti e truppe alleate, nove soldati francesi vennero linciati e Nitti si trovò costretto ad accettare una commissione d’inchiesta che, dopo le indagini, chiese lo scioglimento del Consiglio Nazionale, l’allontanamento del generale Grazioli e la costituzione di un corpo di polizia alleata sotto controllo inglese. Host Venturi, capitano degli Arditi, capo delle organizzazioni irredentiste dell’Istria e della Dalmazia, mobilitò la legione fiumana, un corpo paramilitare, e inviò un messaggio a D’Annunzio, invitandolo ad assumere il patronato della causa di Fiume italiana.

 

Host Venturi sfondava una porta aperta, perché D’Annunzio era chiaramente bramoso di azione; del resto l’idea di un’azione armata per liberare Fiume, cacciandone le truppe alleate e costringendo il governo italiano a dichiarare l’annessione della città all’Italia serpeggiava già da mesi, ma non aveva ancora preso corpo e soprattutto mancava di un Capo. La scelta di Host Venturi fu, come dimostreranno gli avvenimenti, felice, perché la popolarità del poeta soldato era tale da poter fare da catalizzatore delle forze più disparate, come infatti avvenne.

 

Dicevamo in apertura che la vicenda di Fiume ci aiuta a capire meglio il clima in cui viveva il paese in quel travagliato dopoguerra. Il primo dato che salta all’occhio è indubbiamente l’assenza, di fatto, di un’autorità. E’ vero che esisteva un governo, presieduto da Nitti. E’ vero che questo governo poteva contare sulle forze dell’ordine e che tardava anche a smobilitare l’esercito, mantenendo in servizio trecentomila uomini oltre al normale personale di leva. In teoria il governo era fortissimo, in pratica non sapeva quanto e come quella massa di armati potesse essere affidabile o diventare un boomerang.

 

Mentre l’Italia era già teatro degli scontri tra squadre fasciste e socialisti (che a loro volta costituirono le squadre di Arditi del Popolo), gli uomini di punta dell’irredentismo fiumano (Giovanni Giuriati, presidente dell’associazione Trento-Trieste, Oscar Sinigaglia, Eugenio Coselschi, oltre al già citato Host Venturi) potevano tranquillamente fare pubblica propaganda per l’arruolamento nella Legione Fiumana, in ciò coadiuvati anche dai Fasci di combattimento, iniziando il concentramento di uomini a Trieste e comunicando con la massima naturalezza a Badoglio, sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito, l’intenzione di prendere Fiume con un colpo di forza. Una volta tanto l’esercito però non aderì a un programma nazionalista, e Badoglio ordinò alle truppe poste alla frontiera fiumana di aumentare la sorveglianza.

 

Ma di lì a poco si sarebbe visto quanto quegli ordini venissero presi alla lettera. Il precipitare degli eventi in seguito agli episodi sanguinosi del 6 luglio 1919 non fece quindi che dare l’ultimo colpo di acceleratore ad un processo già in corso. Il 12 settembre 1919 D’Annunzio era a Ronchi, una cittadina a pochi chilometri da Trieste, con un seguito di poche centinaia di uomini; ma ad essi si unirono i legionari di Venturi e buona parte dei Granatieri di Sardegna, che avevano da pochi giorni smobilitato da Fiume per decisione della commissione d’inchiesta. Sulla strada per Fiume si aggiunsero gli Arditi del generale Zoppi e una compagnia di fanteria. Alle porte della città contesa gli uomini al seguito di D’Annunzio erano oltre duemila, tra granatieri, arditi e fanti. Il generale Pittaluga, successore del generale Grazioli, avrebbe dovuto obbedire agli ordini del suo superiore Badoglio e fermare con le armi questo esercito privato, formato, aldilà del rispetto per i motivi ideali che animarono molti, da disertori e comandato da un uomo che palesemente si poneva in rotta col governo.

 

Ma al gesto teatrale di D’Annunzio, che aprì il pastrano mostrando la medaglia d’oro e proclamando "Lei non ha che a far tirare su di me, Generale!", Pittaluga rispose abbracciando il poeta ed entrando con lui in Fiume, dove nel frattempo il Consiglio Nazionale aveva preparato una manifestazione che vide in strada, ad acclamare i liberatori, praticamente tutta la parte italiana della città. Nitti a Roma dovette accorgersi finalmente dell’affidabilità delle forze armate; ma il proposito immediato, ossia schiacciare con la forza la sedizione, non si realizzava non solo perché non era ben chiaro quale forza avrebbe obbedito, ma anche perché il golpe fiumano suscitò nel paese anche le simpatie delle masse popolari che, guidate da un partito socialista tanto barricadiero quanto inconcludente, vedevano in quel gesto di forza, seguito da entusiastiche manifestazioni, il prodromo della rivoluzione proletaria.

 

Questa imprevista collusione fra nazionalisti e sinistre non fu che il primo degli elementi di confusione causati dalla vicenda di Fiume, che a sua volta visse l’anno di governo dannunziano in una confusione quasi eretta a modello esistenziale. D’Annunzio non aveva mai avuto una collocazione politica precisa, o meglio, gli si poteva attribuire qualsiasi collocazione, perché la politica, intesa come progetto di una società, e quindi fondata su basi teoriche economiche e sociali, ma capace anche di modulare queste basi teoriche sugli sviluppi storici, la politica, dicevamo, esulava dai suoi interessi. Da subito Fiume registrò il primo fallimento politico, perché D’Annunzio era convinto che la sua marcia avrebbe messo in crisi il Governo presieduto dall’odiato e rinunciatario Nitti, da lui ribattezzato Cagoia. Ma Nitti, dopo un tempestoso dibattito alla Camera, ottenne ancora la fiducia e subito dopo indisse nuove elezioni, fissandole per il mese di novembre. Le truppe alleate (inglesi, francesi e americane) presenti a Fiume smobilitarono nell’arco di una settimana; i rispettivi governi erano ben contenti di lasciare in mano al governo italiano la patata bollente, e D’Annunzio ne trasse il vantaggio di trovarsi a disposizione i magazzini colmi di rifornimenti e scorte.

 

Nitti inviò alla frontiera di Fiume il generale Badoglio, che assunse direttamente il comando delle truppe lealiste e che non mancò di far notare al governo tutte le difficoltà insite in un’azione armata, visto che si poteva contare poco sulla lealtà dei lealisti: le defezioni a favore di D’Annunzio erano frequenti, tant’è che fin dai primi giorni dell’occupazione di Fiume il poeta si trovò a dover rifiutare l’arrivo di ulteriori volontari (o disertori, questione di punti di vista), perché "non sapeva più dove alloggiarli".

 

Se l’esercito era in queste condizioni, la Marina non stava meglio, e se ne accorse l’ammiraglio Casanuova che, recatosi a Fiume con l’ordine di Nitti di far salpare le navi italiane, semplicemente non poté eseguire l’ordine, perché le navi erano vigilate dagli Arditi, ma anche gli equipaggi manifestavano l’intenzione di restare a Fiume, agli ordini di D’Annunzio.

C’era insomma il serio rischio di un contagio a tutte le forze armate, e Nitti scelse una tattica attendista, attuando su Fiume un blocco dei rifornimenti, peraltro molto elastico e cercando di fomentare all’interno della città una divisione tra il Consiglio Nazionale e Il Comandante, come ormai era da tutti definito D’Annunzio.

Se volessimo qui riferire tutta l’attività frenetica di D’Annunzio nei quattordici mesi dell’avventura fiumana, dovremmo chiedere al direttore un centinaio di pagine in più.

 

Piuttosto consigliamo agli amici lettori che vogliano approfondire l’argomento due libri che citiamo in bibliografia, quello di Ledeen e quello di Gerra. Seppur quest’ultimo sia quasi fastidiosamente apologetico, è tuttavia ricco di dati e documenti di grande interesse. Piuttosto ci interessa notare come da subito l’incapacità non solo politica ma anche pratica di D’Annunzio si palesò nei primi contrasti con il Consiglio Nazionale. Passati infatti i primi giorni di entusiasmo, Fiume si trovava di fronte ai problemi concreti di una città sottoposta ad un blocco; con un passaggio di poteri alquanto fumoso, al Comandante era stato attribuito il diritto di veto sulle decisioni del Consiglio; ma di fatto era quest’ultimo a doversi sobbarcare tutte le questioni pratiche, perché D’Annunzio era piuttosto preoccupato di creare quel clima che avrebbe dovuto fare di Fiume, città-olocausto, il faro di una ripresa nazionale all’insegna di valori in verità non bene precisati, ma che avevano come denominatore comune l’azione bella ed eroica. Il poeta presentava sé stesso e i suoi seguaci come i rappresentanti della vera Italia, incarnazione di una forza spirituale superiore, e i suoi soldati come i genuini rappresentanti delle forze armate, quelli che non avevano mai smobilitato, e che non accettavano nessuna mutilazione della Patria.

 

In questo senso da subito D’Annunzio espresse il rifiuto a qualsiasi negoziato con Cagoia: l’unica cosa che il governo italiano poteva fare per riscattarsi era dichiarare l’annessione di Fiume. Su questi toni e con questi temi erano le adunate di popolo, praticamente quotidiane, che furono in pratica l’unica forma di governo esercitata da D’Annunzio. Il popolo, guidato dal poeta, detentore dell’ideale e della bellezza, diveniva al tempo stesso protagonista e strumento degli eventi. E mentre il Consiglio Nazionale cercava una via d’uscita trattando di fatto con Nitti per il tramite di Badoglio, le quotidiane orazioni del poeta incitavano il popolo a non cedere, a voler tutto, nella convinzione che una santa causa non possa perdere se non per l’ignavia degli uomini. E’ significativo, per capire lo stile che D’Annunzio aveva verso le cose pratiche della vita, l’appoggio che egli diede ad uno dei suoi più scatenati seguaci, Guido Keller. Questi aveva organizzato un ufficio colpi di mano, la cui sezione marittima altro non faceva che atti di pirateria, catturando navi mercantili e portandone i carichi a Fiume.

 

E naturalmente ad ogni cattura seguiva un discorso pubblico del Comandante, che lodava i suoi "belli uscocchi, (i pirati medievali dell’Adriatico – N. d. A.), dai volti freschi e puliti come il sole di Vittorio Veneto". In questo clima, con le giornate impegnate in adunanze di piazza e le notti in feste collettive, si realizzava quello che sarebbe stato poi l’inganno costante della politica dei paesi totalitari: l’illusione della partecipazione, l’utilizzo del popolo come cassa di risonanza di decisioni già prese dal vertice, scavalcando quegli organi rappresentativi che sono alla base di ogni vera democrazia. In D’Annunzio non c’era di certo un intento studiato di potere: il popolo era per lui piuttosto la platea necessaria, Fiume era il laboratorio dove tutto era possibile, purché incanalato nelle concezioni estetiche del poeta.

Non a caso a Fiume conversero nazionalisti, che furono comunque i primi protagonisti dell’impresa, ma in seguito anche anarchici e sindacalisti. La Costituzione di Fiume, tanto avanzata quanto irrealistica per l’epoca e che comunque non trovò mai pratica attuazione, fu scritta a quattro mani con quell’Alceste De Ambris, eminente anarco-sindacalista, i cui precedenti politici nulla avrebbero avuto da spartire coi motivi che spinsero i primi legionari a marciare sulla città. Se D’Annunzio non inseguiva progetti di potere, inteso almeno nel senso tradizionale del termine, c’era nel paese un altro uomo che invece sapeva far politica e che inseguiva progetti di potere, inteso nel senso più assoluto del termine. I rapporti tra D’Annunzio e Mussolini non furono mai cordiali, perché il futuro Duce, che in quegli anni iniziava la sua scalata, ma si rendeva conto del fatto che il movimento fascista era ancora troppo debole per un’azione di forza, mantenne sempre un atteggiamento di fatto prudente nei confronti dell’impresa fiumana, anche se abbiamo visto che i Fasci di combattimento parteciparono agli arruolamenti nella Legione fiumana; ma non scordiamoci che all’epoca i Fasci erano ancora una serie di organismi abbastanza autonomi, e uno dei problemi di Mussolini era proprio quello di dare un’unitarietà di direzione al neonato movimento fascista.

Mussolini vedeva l’approssimazione politica di D’Annunzio, di cui pur subiva il fascino, e concretamente, aldilà di accesi articoli, anch’egli stava a vedere cosa sarebbe successo, per decidere se e su quale cavallo saltare, tanto da provocare una violenta lettera di D’Annunzio che gli ingiungeva di "svegliarsi, o lo farò io quando avrò consolidato qui il mio potere…"

 

Mussolini rispose indicendo, sul Popolo d’Italia, una sottoscrizione pubblica a favore di Fiume; raccolse una cifra considerevole, sopra il milione, e subito iniziarono le voci sulle strade che di preciso presero quei soldi. Nitti nel frattempo era chiaramente in crisi; le elezioni da lui stesso volute avevano cambiato il panorama politico alla Camera, con una maggioranza relativa ai socialisti, una forte componente dei popolari di Don Sturzo e circa la metà dei seggi frazionati in un pulviscolo di liberali, radicali, democratici, repubblicani, eccetera. Il rifiuto dei socialisti di partecipare al governo obbligò Nitti ad una precaria alleanza coi popolari e coi gruppuscoli, in una situazione di instabilità permanente, aggravata da una piazza tenuta in continua ebollizione dalle sinistre, col solo risultato di rinforzare i ranghi delle squadre fasciste.

 

Nel giugno del 1920 tornò al potere Giovanni Giolitti, appoggiato anche dai nazionalisti e da Mussolini, che vedevano in lui l’unico uomo in grado di far uscire il paese dal caos.

E Giolitti fu l’uomo che seppe liquidare Fiume; ma si assicurò l’appoggio di Mussolini, pronto a scaricare il poeta ora che l’avventura fiumana, non avendo di fatto risolto nulla, stava per ripiegarsi su sé stessa.

Mentre in Italia accadevano queste cose, D’Annunzio vedeva crescere il suo isolamento in una città ormai stanca del clima sagraiolo e afflitta dai seri problemi di un’economia dissestata. Una spedizione a Zara, insieme a tanto numerosi quanto fumosi progetti di esportare il modello fiumano non solo nel resto dell’Italia, ma addirittura nel mondo, "a difesa di tutti i popoli oppressi" non erano che ulteriori espressioni di un’esperienza che non aveva prodotto nulla di concreto ma non sapeva rassegnarsi a fare qualcosa di concreto.

Mentre personaggi come Riccardo Zanella, capo del partito autonomista, premevano per una soluzione negoziale col governo, e mentre a Versailles gli alleati decidevano che Italia e Iugoslavia risolvessero direttamente le reciproche questioni, D’Annunzio restava fermo nell’accettare solo ed unicamente l’annessione all’Italia del territorio di Fiume. L’ultimo atto politico rilevante del poeta fu la costituzione della Reggenza, a significare che il potere veniva comunque esercitato in nome del Re d’Italia. Ma intanto gli avvenimenti superavano i sogni: col trattato di Rapallo Giolitti ottenne la fissazione del confine lungo la linea di displuvio alpina, più un’esile striscia di territorio per collegarla a Fiume, che però sarebbe rimasta città libera.

 

L’Italia rinunciava alla Dalmazia, con l’eccezione di Zara. Non era l’annessione, ma comunque Fiume veniva sottratta alle pretese slave. A questo punto nulla più poteva giustificare che il governo tollerasse la presenza a Fiume dei legionari e di D’Annunzio. Quest’ultimo, visto che anche i suoi consiglieri più intimi lo spingevano ad accettare il trattato di Rapallo, si chiuse sempre più in sé stesso, lanciando accuse di tradimento, convinto tra l’altro che l’Italia non avrebbe mai osato attaccare Fiume.

Nel Natale del 1920 le truppe regolari entrarono in Fiume, dopo che una cannonata, sparata da una corazzata, aveva colpito la stessa residenza del Comandante.

 

Dopo il "Natale di sangue" i legionari, che avevano perso una cinquantina di uomini, abbandonarono Fiume indisturbati; D’Annunzio si trattenne ancora per poche settimane e poi se ne andò, indisturbato anche lui. Mussolini dalle colonne del Popolo deprecò "l’atto fratricida", ma sostenne anche che il trattato di Rapallo era l’unica soluzione possibile, e che il merito di aver sottratto Fiume alle mire slave andava comunque al poeta e ai suoi valorosi.

Il futuro Duce teneva fede ai patti stipulati con Giolitti e se il Fascismo al potere avrebbe poi esaltato la figura del poeta soldato (che nel 1925 ricevette il titolo di Principe di Monte Nevoso e nel 37 la presidenza dell’Accademia d’Italia), è curioso notare come nei testi storici scritti in periodo fascista sull’impresa fiumana si glissi molto velocemente.

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