Ugolino – Inferno, canto XXXIII (Dante Alighieri)

{mosimage}Il conte Ugolino (1220 – 1289), figlio di
Guelfo della Gherardesca è il protagonista di questo canto della Divina
Commedia.
Il conte di Donoratico, nacque nella prima metà del Duecento da una
nobile famiglia, padrona di vasti feudi nella Maremma ed in Sardegna.

Sebbene di famiglia tradizionalmente ghibellina, nel 1275, si accordò
col genero Giovanni Visconti per portare al potere a Pisa il partito
Guelfo.
Scoperta la congiura fu bandito, ma tornò a Pisa l'anno
seguente riacquistando autorità e prestigio. Dopo la sconfitta dei
Pisani nella battaglia della Meloria nel 1284, assunse la signoria del
comune col titolo di Podestà. Nel 1288, la parte ghibellina insorse
sotto la guida dell'Arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini e delle
famiglie Gualandi, Sismondi e Lanfranchi.
Ugolino, accusato di
tradimento perché considerato responsabile della sconfitta della
Meloria, venne rinchiuso – senza processo – insieme a due figli e due
nipoti nella Torre della Muda o della Muta, così denominata perché in
quel luogo i colombi viaggiatori vi mutavano il piumaggio.
Proprio
nella torre, successivamente detta "della fame", dopo alcuni mesi di
prigionia, Ugolino ed i suoi discendenti furono lasciati morire di fame
nel febbraio del 1289. La leggenda racconta che Ugolino, durante le
prigionia, si sia cibato di carne umana cosi, lo stesso Dante Alighieri
nel XXXIII canto della Divina Commedia, lo condanna a rodere – per
l'eternità – il cranio dell'Arcivescovo Ruggieri, suo principale
accusatore.
La torre in cui Ugolino morì sorgeva nell'attuale Piazza
dei Cavalieri e del suo impianto architettonico sono ancora visibili
dei frammenti nella sezione distaccata della biblioteca della Scuola
Normale Superiore.
Il processo a Ugolino fu celebrato – per la prima
volta – nel 1989, in una suggestiva ricostruzione storica in Piazza dei
Cavalieri. In quell'occasione il conte fu assolto da tutti i capi di
imputazione a suo carico.
Nel 2001, ad opera dell'equipe condotta dal
Prof. Francesco Mallegni, ordinario presso il Dipartimento di Scienze
Archeologiche dell'Università di Pisa, su incarico del Comune e della
Provincia di Pisa, una volta individuata la sepoltura del Conte e dei
suoi parenti presso la Chiesa di San Francesco dei frati minori di
Pisa, si sono iniziati gli studi per procedere alla ricostruzione dei
tratti somatici del volto e per il riscontro del DNA fossile.

1   La bocca sollevò dal fiero pasto

    quel peccator, forbendola a'capelli

    del capo ch'elli avea di retro guasto.

    Poi cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli

5  disperato dolor che 'l cor mi preme

    già pur pensando, pria ch'io ne favelli.

    Ma se le mie parole esser dien seme

    che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,

    parlar e lagrimar vedrai insieme.

10 Io non so chi tu se' né per che modo

    venuto se' qua giù; ma fiorentino

    mi sembri veramente quand'io t'odo.

    Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino,

    e questi è l'arcivescovo Ruggieri:

15 or ti dirò perché i son tal vicino.

    Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,

    fidandomi di lui, io fossi preso

    e poscia morto, dir non è mestieri;

    però quel che non puoi avere inteso,

20 cioè come la morte mia fu cruda,

    udirai, e saprai s'e' m'ha offeso.

    Breve pertugio dentro da la Muda

    la qual per me ha 'l titol de la fame,

    e che conviene ancor ch'altrui si chiuda,

25m'avea mostrato per lo suo forame

    più lune già, quand'io feci 'l mal sonno

    che del futuro mi squarciò 'l velame.

    Questi pareva a me maestro e donno,

    cacciando il lupo e ' lupicini al monte

30 per che i Pisan veder Lucca non ponno.

    Con cagne magre, studiose e conte

    Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi

    s'avea messi dinanzi da la fronte.

    In picciol corso mi parieno stanchi

35lo padre e ' figli, e con l'agute scane

    mi parea lor veder fender li fianchi.

    Quando fui desto innanzi la dimane,

    pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli

    ch'eran con meco, e dimandar del pane.

40 Ben se' crudel, se tu già non ti duoli

    pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava;

    e se non piangi, di che pianger suoli?

    Già eran desti, e l'ora s'appressava

    che 'l cibo ne solea essere addotto,

45 e per suo sogno ciascun dubitava;

    e io senti' chiavar l'uscio di sotto

    a l'orribile torre; ond'io guardai

    nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.

    Io non piangea, sì dentro impetrai:

50 piangevan elli; e Anselmuccio mio

    disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".

    Perciò non lacrimai né rispuos'io

    tutto quel giorno né la notte appresso,

    infin che l'altro sol nel mondo uscìo.

55Come un poco di raggio si fu messo

    nel doloroso carcere, e io scorsi

    per quattro visi il mio aspetto stesso,

    ambo le man per lo dolor mi morsi;

    ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia

60 di manicar, di subito levorsi

    e disser: "Padre, assai ci fia men doglia

    se tu mangi di noi: tu ne vestisti

    queste misere carni, e tu le spoglia".

    Queta'mi allor per non farli più tristi;

65 lo dì e l'altro stemmo tutti muti;

    ahi dura terra, perché non t'apristi?

    Poscia che fummo al quarto dì venuti,

    Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,

    dicendo: "Padre mio, ché non mi aiuti?".

70 Quivi morì; e come tu mi vedi,

    vid'io cascar li tre ad uno ad uno

    tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond'io mi diedi,

    già cieco, a brancolar sovra ciascuno,

    e due dì li chiamai, poi che fur morti.

75 Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno».

    Quand'ebbe detto ciò, con li occhi torti

    riprese 'l teschio misero co'denti,

    che furo a l'osso, come d'un can, forti.

    Ahi Pisa, vituperio de le genti

80 del bel paese là dove 'l sì suona,

    poi che i vicini a te punir son lenti,

    muovasi la Capraia e la Gorgona,

    e faccian siepe ad Arno in su la foce,

    sì ch'elli annieghi in te ogne persona!

85Ché se 'l conte Ugolino aveva voce

    d'aver tradita te de le castella,

    non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.

    Innocenti facea l'età novella,

    novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata

90 e li altri due che 'l canto suso appella.

    Noi passammo oltre, là 've la gelata

    ruvidamente un'altra gente fascia,

    non volta in giù, ma tutta riversata.

    Lo pianto stesso lì pianger non lascia,

95 e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo,

    si volge in entro a far crescer l'ambascia;

    ché le lagrime prime fanno groppo,

    e sì come visiere di cristallo,

    riempion sotto 'l ciglio tutto il coppo.

100 E avvegna che, sì come d'un callo,

    per la freddura ciascun sentimento

    cessato avesse del mio viso stallo,

    già mi parea sentire alquanto vento:

    per ch'io: «Maestro mio, questo chi move?

105 non è qua giù ogne vapore spento?».

    Ond'elli a me: «Avaccio sarai dove

    di ciò ti farà l'occhio la risposta,

    veggendo la cagion che 'l fiato piove».

    E un de' tristi de la fredda crosta

110 gridò a noi: «O anime crudeli,

    tanto che data v'è l'ultima posta,

    levatemi dal viso i duri veli,

    sì ch'io sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna,

    un poco, pria che 'l pianto si raggeli».

115 Per ch'io a lui: «Se vuo' ch'i' ti sovvegna,

    dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo,

    al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».

    Rispuose adunque: «I' son frate Alberigo;

    i' son quel da le frutta del mal orto,

120 che qui riprendo dattero per figo».

    «Oh!», diss'io lui, «or se' tu ancor morto?».

    Ed elli a me: «Come 'l mio corpo stea

    nel mondo sù, nulla scienza porto.

    Cotal vantaggio ha questa Tolomea,

125 che spesse volte l'anima ci cade

    innanzi ch'Atropòs mossa le dea.

    E perché tu più volentier mi rade

    le 'nvetriate lagrime dal volto,

    sappie che, tosto che l'anima trade

130 come fec'io, il corpo suo l'è tolto

    da un demonio, che poscia il governa

    mentre che 'l tempo suo tutto sia vòlto.

    Ella ruina in sì fatta cisterna;

    e forse pare ancor lo corpo suso

135 de l'ombra che di qua dietro mi verna.

    Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso:

    elli è ser Branca Doria, e son più anni

    poscia passati ch'el fu sì racchiuso».

    «Io credo», diss'io lui, «che tu m'inganni;

140 ché Branca Doria non morì unquanche,

    e mangia e bee e dorme e veste panni».

    «Nel fosso sù», diss'el, «de' Malebranche,

    là dove bolle la tenace pece,

    non era ancor giunto Michel Zanche,

145 che questi lasciò il diavolo in sua vece

    nel corpo suo, ed un suo prossimano

    che 'l tradimento insieme con lui fece.

    Ma distendi oggimai in qua la mano;

    aprimi li occhi». E io non gliel'apersi;

150 e cortesia fu lui esser villano.

    Ahi Genovesi, uomini diversi

    d'ogne costume e pien d'ogne magagna,

    perché non siete voi del mondo spersi?

    Ché col peggiore spirto di Romagna

155 trovai di voi un tal, che per sua opra

    in anima in Cocito già si bagna,

    e in corpo par vivo ancor di sopra.


Dante Alighieri
Inferno, canto XXIII

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